Abstract/Sommario: Per un lunghissimo periodo, la nozione di Terzo settore – di uso comune in ambiti scientifici e nel linguaggio politico – è stata priva di qualsiasi rilievo giuridico, sebbene il legislatore l’abbia evocata più volte senza definirla. L’art. 4 CTS determina la chiusura di un percorso storico e travagliato, consegnando al giurista (visibilmente sollevato dalla possibilità di poter ancorare il Terzo settore ad una norma di diritto positivo!) uno “strumento” di delimitazione dei diversi se ...; [Leggi tutto...]
Per un lunghissimo periodo, la nozione di Terzo settore – di uso comune in ambiti scientifici e nel linguaggio politico – è stata priva di qualsiasi rilievo giuridico, sebbene il legislatore l’abbia evocata più volte senza definirla. L’art. 4 CTS determina la chiusura di un percorso storico e travagliato, consegnando al giurista (visibilmente sollevato dalla possibilità di poter ancorare il Terzo settore ad una norma di diritto positivo!) uno “strumento” di delimitazione dei diversi settori e di attribuzione a ciascun ente di una propria qualifica. Come accade fisiologicamente nella disciplina giuridica che sancisce norme quadro o, a maggior ragione come nel caso del Terzo settore, un nuovo raggruppamento di soggetti giuridici, non appena le norme cristallizzano un certo assetto di rapporti o di caratteri degli enti o delle loro attività, la realtà, con il suo incessante modificarsi, mette in crisi la chiarezza testé raggiunta. La questione dei confini è, esattamente, l’ulteriore riprova di questo. Con una notevole conseguenza di sistema: che il diluirsi dei confini del Terzo settore rischia di far franare l’intera opera riformatrice che, invece, si regge proprio sul presupposto di quell’art. 4 CTS, che stabilisce chi è dentro e chi è fuori dall’ambito di applicazione della norma. Oppure, da un’altra angolatura, si tratta di uno stress test per verificare l’intento autenticamente riformatore della nuova disciplina e non di semplice riordino dell’esistente.
Abstract/Sommario: In questo scritto si presenta ed analizza la nuova disciplina dell’impresa sociale, contenuta nel d.lgs. 112/2017 e parte della recente riforma del terzo settore, dalla prospettiva dei suoi diversi stakeholder, classificati e suddivisi in classi omogenee (cittadini che intendono realizzare attività di interesse generale, utenti e beneficiari di attività di interesse generale, lavoratori e volontari, pubbliche amministrazioni, ecc.). Si porrà l’enfasi su quelle norme del decreto che app ...; [Leggi tutto...]
In questo scritto si presenta ed analizza la nuova disciplina dell’impresa sociale, contenuta nel d.lgs. 112/2017 e parte della recente riforma del terzo settore, dalla prospettiva dei suoi diversi stakeholder, classificati e suddivisi in classi omogenee (cittadini che intendono realizzare attività di interesse generale, utenti e beneficiari di attività di interesse generale, lavoratori e volontari, pubbliche amministrazioni, ecc.). Si porrà l’enfasi su quelle norme del decreto che appaiono maggiormente satisfattive degli interessi degli stakeholder dell’impresa sociale, rendendo la nuova legislazione un’opportunità non soltanto per questi ultimi ma anche, in termini generali, per lo sviluppo dell’impresa sociale quale particolare fattispecie organizzativa del terzo settore.
Abstract/Sommario: Il saggio prende in esame il problema degli squilibri irrisolti nei processi di sviluppo territoriale e nei percorsi intrapresi da diverse categorie e comunità di interesse, e problematizza le ricette che negli anni ‘90 si basavano sulla diffusione dell’economia della conoscenza e sul coordinamento delle risorse da parte delle organizzazioni di mercato, da un lato, e dello Stato, dall’altro. Questo contributo identifica il “fallimento della governance” di cui si dotano tali organizzazi ...; [Leggi tutto...]
Il saggio prende in esame il problema degli squilibri irrisolti nei processi di sviluppo territoriale e nei percorsi intrapresi da diverse categorie e comunità di interesse, e problematizza le ricette che negli anni ‘90 si basavano sulla diffusione dell’economia della conoscenza e sul coordinamento delle risorse da parte delle organizzazioni di mercato, da un lato, e dello Stato, dall’altro. Questo contributo identifica il “fallimento della governance” di cui si dotano tali organizzazioni come un’importante causa di questi squilibri, indicando i limiti di forme in cui vi è concentrazione di potere decisionale, laddove invece sarebbe necessario aprire il processo di decisione strategico a molteplici portatori di interesse, oltre che riconoscere la complessità delle sfide sociali ed i bisogni che le caratterizzano. Si suggerisce come modello di governance alternativo quello a stakeholder multiplo, incentrato sull’inclusione dei portatori di interesse, enfatizzando la capacità di queste forme di creare vantaggi per gli stakeholder nonché maggiore beneficio pubblico, o esternalità positive per la collettività. Secondo il modello proposto, la riduzione degli squilibri di conoscenza, status, redditi, e autorità decisionale si basa su soluzioni che comprendono l’applicazione di forme di governance inclusive non solo al coordinamento di risorse materiali e finanziarie, ma anche all’utilizzo e alla ri-creazione di competenze, beni relazionali, norme comportamentali reciprocanti e cooperative, valori di solidarietà intra e inter-generazionale.
Abstract/Sommario: La mia generazione di studenti di economia è stata abituata alla distinzione Stato/Mercato che, come quasi tutto ciò che abbiamo imparato negli anni ‘80, è obsoleta; forse era già vecchia allora, risentendo di una cecità degli economisti ai contributi di altre scienze sociali. Un’illustrazione di quella attitudine era il salto logico, quasi sempre compiuto, dall’identificazione di un fallimento del mercato alla ricerca delle politiche pubbliche con cui ridurne o azzerarne gli effetti, ...; [Leggi tutto...]
La mia generazione di studenti di economia è stata abituata alla distinzione Stato/Mercato che, come quasi tutto ciò che abbiamo imparato negli anni ‘80, è obsoleta; forse era già vecchia allora, risentendo di una cecità degli economisti ai contributi di altre scienze sociali. Un’illustrazione di quella attitudine era il salto logico, quasi sempre compiuto, dall’identificazione di un fallimento del mercato alla ricerca delle politiche pubbliche con cui ridurne o azzerarne gli effetti, spessissimo senza nemmeno porsi il problema dell’esistenza di altre vie. Questa subcultura non è morta, nemmeno fra economisti con visibilità pubblica, che Keynes avrebbe chiamato schiavi di pensatori morti tempo fa; ma è in agonia e passerà. Il riconoscimento di un comparto “terzo” è necessario per dar conto di una serie di fenomeni, che sono importanti in settori economicamente rilevanti come la sanità, l’istruzione, l’assistenza sociale o la cultura, nonché per fini (anche) economici come lo sviluppo locale e la rivitalizzazione urbana. La collocazione di una economia sociale “a metà” fra Stato e mercato è ugualmente dubbia. Al di là della partnership che esiste fra mondo del Terzo settore e amministrazioni pubbliche (primariamente locali: quindi, non lo Stato), l’uso del “mercato” non è ciò che distingue le imprese for profit dal Terzo settore, molto del quale – specificamente la sua componente produttiva, che è la più rilevante dal punto di vista economico – passa attraverso il mercato nell’esercitare la sua attività tipica: tant’è che le entrate del Terzo settore italiano provengono in maggiore quantità da scambi di mercato che da transazioni non-market. Di qui la domanda: qual è esattamente lo spazio del “settore sociale”? In particolare, rispetto a nuove tendenze dell’economia e della società, come social network, sharing economy, “economia circolare”, etc.: quanto sono “sociali” questi fenomeni? Lo sono nello stesso senso in cui lo è l’”economia sociale”?